Le case delle api di Montà


<----Ciabot Calorio a due piani
Nel corso dell'800 alcuni montalesi hanno adottato varie costruzioni site in aperta campagna, chiamate <ciabot>, per ospitare gli alveari e tentare un allevamento razionale su vasta scala. Dette costruzioni, ubicate negli appezzamenti agricoli, avevano funzione di supporto. I tetti dei <ciabot> raccoglievano l'acqua piovana che conservata in apposite cisterne, veniva utilizzata per i trattamenti ai vigneti e per dissetare il bestiame.

Queste case dotate di stanze abitabili e, spesso, venivano adibite anche come riparo per gli animali, che costituivano l'unico mezzo di trasporto e perciò godevano di particolare importanza.

Le case rappresentavano un luogo di vita, dove la gente trascorreva molto tempo per seguire i lavori agricoli.

I migliori <ciabot> erano costruiti in mezzo a proprietà di una certa importanza ed estensione e appartenevano a famiglie di ceto elevato che impiegavano molta manodopera. Queste costruzioni costituivano un prezioso supporto logistico per l'organizzazione dei lavori nei campi. La loro abitabilità le rendeva delle vere e proprie case che permettevano, nel periodo della vendemmia, di soggiornare nelle vicinanze dei vigneti-frutteti e, quindi, vigilare e ridurre l'incidenza dei furti che all'epoca si verificavano molto di frequente.

Una di queste costruzioni, Ciabot Calorio è dislocata in Val Diana, ricca di boschi da sempre incolti che sfocia nelle rocche di San Giacomo, sito facilmente raggiungibile da Via Placido Mossello.

La famiglia Calorio, da lungo tempo benestante annovera tra i suoi membri diversi sacerdoti, segno all'epoca di grande prestigio e di cultura. I sacerdoti hanno giocato un ruolo importante nella diffusione dell'attività apistica, in particolare agli inizi del '900.

<----Armadio a muro all'interno del ciabot suddiviso in vani che costituisconodegli alveari modello Sartori
Nel Ciabot Calorio abbiamo l'utilizzo di un armadio a muro posto nella stanza al piano superiore cui si accede con una scaletta in parte in muratura e in parte in legno. Giunti al piano superiore, con una plancia di legno robusto si copre l'androne della scala e in questo modo si crea un basamento dal quale si può accedere ad un armadio a muro, che è stato adattato e ripartito in sei parti per ricevere altrettanti alveari.

L'apiario nel muro è stato realizzato con una suddivisione in sei vani e l'apertura esterna è stata praticata utilizzando tubolari in ferro di diametro circa 1,5 cm per cui nella parete della casa si nota una serie di tubini a filo del muro e rimane ancora evidente il segno di un predellino di volo sulla parete.

Le arnie al loro interno pur essendo di modello Sartori, non erano dotate di calotta o (melario) ed erano unicamente costruite dal solo nido. L'adattamento del muro-armadio è di difficile attribuzione, forse a Calorio Giovanni, nato nel 1846, oppure ai suoi figli Calorio Filippo nato nel 1882 o a Calorio Don Giuseppe nato nel 1884, diventato sacerdote parroco della piccola chiesa dei Gianoli nel 1909 e gestore di un piccolo apiario, probabilmente nella casa natale.







<---All'esterno, il predellino di volo in mattoni e i fori tubolari per l'accesso delle api
La seconda costruzione è situata al fondo della salita che da Canale conduce all'abitato di Montà sulla antica via di congiungimento tra i due paesi chiamata (la muntà) che significa <la salita>.

Questa costruzione da sempre è conosciuta come <cà d'avie> casa delle api e consiste in un muro di grosse dimensioni costituito in modo da ospitare ben sessantaquattro famiglie di api disposti su tre piani.

La costruzione, di pregevole fattura risale probabilmente al 1700, mentre il muro che ospita le api risale alla seconda metà del 1800 ed è opera di due fratelli, Chiesa Filippo nato nel 1836 e Giovanni Battista nato nel 1850. La casa, sita in un'ampia proprietà era utilizzata come luogo di ricovero degli animali impiegati per andare in campagna e come rifugio. In autunno, nel periodo della vendemmia, la casa veniva utilizzata in particolare dal Chiesa Filippo, sarto di professione, rimasto celibe, che qui dormiva spesso per difendere la proprietà dai molti furti di uva e anche, forse di miele..

La tecnica utilizzata in entrambi i casi è quella dell'alveare Sartori a favo mobile con apertura posteriore. In particolare nella <cà d'avie> coesistono un insieme di tecniche particolari: la fila in basso era predisposta per accogliere gli alveari in legno modello Sartori con calotta i quali venivano inseriti in apposite nicchie murate.

Vista del lato interno del muro delle api. In primo piano le nicchie corrispondono agli alveari modello Sartori Le nicchie in primo piano corrispondono agli alveari modello Fumagalli Casa con adiacente il risalente alla seconda metà del 1800

La parte centrale e la fila superiore sono invece predisposte per accogliere i telai direttamente nel muro; per sostenere i telaini sono state intonacate le pareti onde poter ispessire e creare il supporto delle alette dei telaini. A chiusura delle nicchie veniva utilizzato il <diaframma>, così chiamato dal professor Sartori, che consisteva di un quadro in legno con interno in vetro che veniva spinto sin contro i telai. La parte inferiore del diaframma era costituita da uno sportellino apribile per poter infilare un ferro per fare pulizia delle esuvie o residui che si depositavano sul fondo. In inverno, nei momenti di maggiore carestia e necessità, lo sportellino era anche utilizzato per inserire eventuali piattini contenenti nutrimento.

In particolare c'è da constatare che, nella fila centrale, i primi dieci alveari della fila (un totale di 18) hanno una dimensione diversa dagli altri, e cioè il nido uguale al melario, e utilizzano una tecnica corrispondente al modello <Aldo Fumagalli> caratterizzata dal fatto di avere i telai del nido uguali a quelli della calotta (attuale melario). In questo caso abbiamo la creazione di due corpi nido, apparentemente non comunicanti, senza quindi la presenza del melario. Il completamento della fila centrale costituita da otto corpi nido e calotta e la parte superiore con 18 arnie, rimarcano fedelmente gli alveari Sartori con il loro corpo nido e la calotta.

Anche i telai che abbiamo ritrovato rappresentano fedelmente questa tecnica: nel corpo nido i primi 4 telai erano a tutta altezza i successivi erano telai da melario a metà altezza come quelli del melario.

Le aperture di volo delle api sono state ricavate nel muro scavando dall'interno il mattone e fuoriuscendo su di un predellino ricavato con un mattone sporgente dal muro. L'uscita delle api è convogliata in sei fori, tre a tre , ricavati da uno stampo di calce. Questa precisione di costruzione permetteva l'uso di un'aletta di chiusura in inverno per riparare l'apertura dai venti freddi e probabilmente dall'introdursi dei predatori; l'aletta di chiusura era il modello <porticina Donati>.

La dislocazione di questo apiario è particolarmente felice in quanto da questo punto le api potevano facilmente raggiungere i prati stabili al fondo della valle, i boschi di acacia e i boschi di castagno.

Il prelievo del miele veniva fatto da dietro asportando il diaframma e ritagliando i favi dentro i telai di legno. La <ca d'avie> di Montà è stata utilizzata sino al 1940 dal signor Chiesa Giovanni Battista classe 1920 che in quell'anno partì militare e le api furono vendute ad un apicoltore della Valle San Lorenzo. Rappresentavano sicuramente un tentativo di allevamento razionale nei muri, tecnica sperimentata agli albori dell'apicoltura razionale dove si provavano tutti i metodi di allevamento razionali possibili.

L'origine della tecnica è da attribuirsi al modello di allevamento indicato dal testo <L'Apicoltura in Italia> manuale tecnico-pratico-industriale compilato da Luigi Sartori Prof. e dal Cav. A.De Rauschenfels, Milano 1878.

La costruzione, inoltre, è impreziosita da un dipinto che indica la rappresentazione di Gesù a suo cugino Giovanni il Battista. In un angolo una piccola rudimentale meridiana, oltre che segnare lo scorrere del tempo, indica il passaggio di qualcuno che ha cercato di scrivere un pochino di storia della nostra terra.

Claudio Cauda