L'idromele:la storia
“L’idromele questo sconosciuto” potremmo titolare, perché di tutti i prodotti dal miele è quello che più ci intriga, ma anche quello che ci mette più in soggezione; perché per fare l’idromele non ci sono molte esperienze altrui di cui far tesoro e tanto meno testi da consultare. Non esiste quindi in Italia un prodotto di riferimento, tanto è stata netta la cesura e tanto a lungo è durato l’ostracismo verso questo prodotto; esistono è vero fuori d’Italia molti esempi di produzione di idromele, come in Polonia, in Carinzia e Slovenia, in Bretagna, nei Paesi Scandinavi, in Russia, negli Stati Uniti ed in Canada, ma sono prodotti di antichissima origine, molto diversi tra loro, sedimentati sul territorio, con delle caratteristiche peculiari come l’alcolizzazione, l’aromatizzazione o addizione con succhi di frutta che ci possono essere ben poco utili. “Tanto meglio” siamo tentati di osservare, vuol dire che faremo un prodotto tutto nuovo, che non guarda soltanto alla tradizione ma anche alle conoscenze moderne sulla vinificazione.

Hanno qui poco senso affermazioni del genere “voglio fare l’idromele come lo facevano i Celti” oppure “ come i Romani ed i Greci”; non credo che ci piacerebbe molto l’idromele degli antichi, d’altra parte non era il soddisfacimento del gusto la ragione produttiva dell’idromele quanto l’elaborazione di una bevanda dalla consistente alcoolicità, che inducesse stati alterati della coscienza, i quali facilitano quel contatto con la divinità che essi ricercavano; non è una novità che molte religioni utilizzano alcool, droghe o tecniche psicologiche per indurre tali stati. Il vino veniva fatto con uve scarsamente zuccherine ed aveva una debole gradazione alcolica, non parliamo poi della birra che era una pappina leggermente alcolica; per l’idromele invece era sufficiente aggiungere ancora miele alla miscela in fermentazione per avere una bevanda dalla gradazione piuttosto alta; notiamo ancora che la presenza di zuccheri residui nell’idromele rendeva molto più veloce l’assorbimento dell’alcol da parte dell’organismo; possiamo dire che era il loro superalcolico. Non a caso l’idromele non è mai stato per gli antichi “bevanda da pasto”, ma piuttosto la bevanda rituale con cui aspergere i sacrifici prima del fuoco purificatore, o componente della panacea, la bevanda che cura tutti i mali sia del corpo che dello spirito.

Ma per ricercare le origini dell’idromele dovremo tornare molto indietro nel tempo, e dovremo tornare così tanto indietro che dovremo farlo con il supporto di semplici deduzioni e non quello di documenti o di ricerche archeologiche.

Le ricerche sulla produzione del vino si fanno sulla scorta di ritrovamenti di torchi o di palmenti o di vinaccioli o di orci o di anfore: siti dunque o attrezzature che l’uomo primitivo utilizzava per la produzione del vino; ma per l’idromele niente di tutto questo, l’unico residuo di questa primitiva produzione erano solo la deperibilissima cera e l’altrettanto deperibile contenitore, l’otre di cuoio.

Quando noi diciamo che l’idromele è assai più antico del vino lo facciamo pensando che per fare il vino l’uomo primitivo ha dovuto prima sedentarizzarsi, imparare a coltivare la vite e solo dopo casualmente scoprire che dal succo di quel grappolo poteva ricavare una bevanda inebriante; per l’idromele invece non ha dovuto imparare ad allevare le api, era già cacciatore di miele da sciami selvatici quando era una scimmia, e non ha dovuto costruirsi il recipiente di terracotta per la fermentazione, aveva già a disposizione il primitivo ma funzionale otre di cuoio, il contenitore per eccellenza delle popolazioni nomadi; per quanto riguarda il processo produttivo poi, tutti gli apicoltori sanno che per togliere i residui di miele dai favi strizzati o dagli opercoli il sistema più semplice è immergerli in acqua: il miele si scioglierà istantaneamente. Una volta fatta questa operazione la miscela di acqua e miele inizia a fermentare da subito, naturalmente, ad opera dei lieviti indigeni presenti nel miele ed è già bevibile, anzi l’idromele non è come il vino che sviluppa i suoi aromi solo dopo la fermentazione primaria, ma come la birra col suo profumo di lieviti ed il frizzante della fermentazione.

Cosa supporta questa ricostruzione? Beh, un paio di cose, ma la risposta è unica ed è l’otre di cuoio. Basti pensare che nel Corno d’Africa, dove l’idromele è la bevanda nazionale (in Etiopia si chiama “tejj” ed in Eritrea “mies”) dai circa 10 milioni (!!!) di alveari rustici l’80% del miele prodotto viene utilizzato per fare idromele che viene bevuto in occasione dei matrimoni; e ancora oggi, l’idromele viene prodotto esattamente come 10.000 anni fa ponendo nell’otre di cuoio i favi sbriciolati e l’acqua; dopo qualche settimana, una volta prodotta la bevanda i residui della fermentazione vengono fusi per recuperare la cera: l’Etiopia è il maggior esportatore di cera vergine verso gli Stati Uniti.

La seconda cosa interessante ci viene dal libro “ Dioniso “ di Karl Kerenyi, tedesco di origine ungherese, docente di Storia delle religioni che parla di “ mito dell’otre di cuoio “ nella mitologia greca. I greci credevano, come tutti i popoli dopo di loro fino al 17° secolo che per riprodurre uno sciame di api fosse necessario uccidere a bastonate un vitello senza che alcuna ferita rompesse la pelle dell’animale, dopo qualche giorno dal ventre dell’animale in putrefazione avrebbe preso il volo uno sciame di api. A noi sembra stupefacente come osservatori anche molto attenti della vita delle api cadessero in un errore così marchiano, scambiando delle mosche per delle api ma ci è servito ricordarlo perché c’è una similitudine tra l’otre di cuoio dove il miele diventa idromele, e l’otre di cuoio cioè l’animale morto ma con la pelle intatta all’interno del quale si forma lo sciame: la mitologia come la religionie spesso si nutre di simili incongruenze. D’altronde tutta la mitologia greca è impregnata di miele ed idromele: nettare ed ambrosia, cibo e bevanda degli Dei, inizialmente non vengono identificati l’uno con il cibo e l’altro con la bevanda, forse perché sono due aspetti dello stesso prodotto; è solo in un secondo tempo che il nettare diviene la bevanda e l’ambrosia il cibo: miele e idromele, due prodotti talmente ricchi da essere destinati ad essere cibo e bevanda degli Dei.

Dal Corno d’Africa dove ebbe dunque probabilmente origine, ma è la stessa origine dell’uomo a prendere forma in questa regione, l’idromele si sposta seguendo le migrazioni verso est di quelle popolazioni che costituiranno il serbatoio di tutte le invasioni più o meno pacifiche che per millenni devasteranno l’Europa, e che daranno vita alla tradizione dell’idromele celtico o comunque del nord-Europa e verso nord attraverso la Nubia e l’Egitto per approdare nel secondo millennio a.c.a Creta, dove dice sempre Kerenyi nasce il nucleo del mito di Dioniso in un momento che precede la cultura della coltivazione della vite; cioè il culto dionisiaco nasce non con il vino ma con l’idromele.

Dell’importanza dell’idromele presso Greci e Romani abbiamo già detto, esso non diventerà però mai bevanda popolare dato l’alto costo della materia prima; verrà soppiantato lentamente dal vino che è più facile da produrre e soprattutto non è bevanda pagana, anzi, è fortemente legato alla liturgia cristiana; dal Medioevo l’idromele scompare dalla nostra tradizione: rimarrà fino a tempi abbastanza recenti nelle farmacopee assieme all’ossimele come estrattivo : l’uno per la presenza di alcool, l’altro per la presenza di aceto infatti riescono a solubilizzare i principi attivi delle erbe in fitoterapia.

Nella tradizione del Nord-Europa invece la produzione dell’idromele fu molto più stabile ed è durata fino ai giorni nostri; in un clima che non permetteva la coltivazione della vite praticamente la sola bevanda veramnte alcolica che si potesse produrre era l’idromele, oltre alla birra ed il sidro che erano le bevande da pasto. Anche qui l’idromele era la bevanda preparata dai druidi e destinata a sottolineare le grandi feste dei solstizi e degli equinozi che a queste latitudini sono particolarmente importanti. Anche se la mitologia norrena non è perfettamente credibile in quanto di tradizione orale, l’idromele è centrale anche in questa cultura; nani che uccidono il saggio Kvasir e con il suo sangue fabbricano l’idromele, Odino che con incantesimo se ne impadronisce, il dio Fjolnir che vi annega dentro, e con cosa credete che riempissero le valchirie i corni potori dei guerrieri di ritorno dalla battaglia, e con cosa brindavano i vichingi nei crani dei loro nemici ? La risposta è sempre la stessa: idromele. Solo che nel nord-Europa cambia il contenitore, non siamo più al piccolo otre di cuoio ma al calderone di bronzo nel quale bolle il mosto, perché non dimentichiamo che la bollitura è ancor oggi la possibile soluzione ad un problema del mosto di idromele, la sterilizzazione e asportazione di polline e mucillagini; e cambiando il contenitore cambiano le quantità prodotte e la destinazione. Gli apicoltori francesi vendono l’idromele come la bevanda di Asterix, ma alla nostra replica che non si parla nel fumetto di idromele rispondono sornioni: “ E la pozione magica ? ” Ed infatti troviamo analogie tra la pozione magica e l’idromele, entrambe vengono fatte bollire, in entrambe vengono messi a bollire sostanze aromatizzanti, erbe e spezie nell’idromele, e ironicamente un sacco di altre cose nella pozione magica ma soprattutto sia la pozione magica sia l’idromele con il suo rilevante contenuto alcolico danno il coraggio di affrontare il nemico in battaglia: ancora durante la Prima Guerra mondiale i soldati erano obbligati a bere una gavetta di grappa prima di andare all’assalto; in mancanza di questo chi sarebbe andato a farzi infilzare dalle baionette?

Grandi produttori di idromele furono Celti e Vichinghi, la rinascita moderna dell’idromele deve molto ai festival di musica celtica ed alla riscoperta della cultura anglosassone che c’è dietro: noi pensiamo a Robin Hood, ma ad esempio, la locuzione che noi usiamo quotidianamente “luna di miele” dovrebbe più chiamarsi più correttamente “luna di idromele”, poiche deriva direttamente dalla documentata abitudine degli sposi inglesi di bere idromele nella “mazer cup” ovvero la “coppa della coppia”per la durata di una lunazione, questo nella credenza che ciò facesse concepire figli maschi; o al re del Galles che voleva quotidianamente essere aggiornato su tre cose che avvenissero nel suo reame: ogni sentenza emessa dai suoi giudici in suo nome, ogni nuova canzone composta e ogni barile di idromele messo in fermentazione.

E tuttora l’idromele con diversi nomi e con diverse modalita, scandisce i passaggi stagionali dei solstizi e degli equinozi, nei paesi scandinavi, nei paesi dell’est, in Inghilterra, in Bretagna ed in Irlanda ed ha seguito gli anglosassoni in America e Canada: il maggiore concorso di idromeli artigianali in fatti, la “Mazer Cup”, si svolge negli Stati Uniti.

In Italia da tutto il medioevo l’idromele non si produce più, perlomeno nella forma e nel nome classico; il vino ha soppiantato ogni bevanda fermentata e il nome stesso di idromele è conosciuto solo da chi ha fatto studi classici; eppure Peppino il vecchio apicoltore che mi ha insegnato il mestiere e che aveva imparato l’apicoltura nella convento benedettino dove i suoi erano contadini, dopo aver fatto il vino, mescolava i residui della torchiatura con l’acqua di lavaggio degli opercoli: da li ripartiva la fermentazione di quella che lui chiamava “acqua mozza” e che tecnicamente si chiama vinello, o acquetta. Solo più tardi ho scoperto che i Romani chiamavano l’idromele “acqua mulsa” e quel nome pur storpiato, pur rappresentando un prodotto diverso, aveva passato indenne attraverso un percorso sotterraneo durato secoli.

L’idromele sembra essere l’acqua con la quale è stato impastato l’uomo, tanto fortemente ci impregna fino in profondità, tanto antica è la strada che abbiamo fatto insieme, non beviamolo mai con leggerezza, non fermiamoci mai al primo assaggio,cerchiamo nella degustazione di analizzarne la complessità, di valorizzarne gli abbinamenti gastronomici, ed io spero che dia anche a voi le stesse emozioni che ha dato a me.
Alberto Mattoni
http://www.idromele.com
a seguire--> Intervista di Alberto Mattoni rilasciata a: “LAPIS “Rivista di apicoltura” numero 8, anno V°, ottobre 1997.