Le api? pensano e parlano come noi
Immaginate se i cento miliardi di cellule del nostro cervello cominciassero ad andarsene in giro ronzando, pur mantenendo un certo contatto tra di loro, o almeno un reciproco scambio di informazioni. Cosa pensereste? Probabilmente che la nostra testa è diventata un alveare. In realtà ogni neurone racchiuso nella scatola cranica conserva una certa individualità, anche se sono così massicciamente ammassati che solo i raffinati e potenti strumenti moderni di indagine delle neuroscienze riescono spesso a individuarli e a interpretarne funzioni e interazioni e quindi diviene difficile pensarli come una sterminata massa di singole unità. Ma il prodotto delle loro frenetiche funzioni, del loro «silenzioso frastuono», è qualcosa che secerne probabilmente ciò che chiamiamo mente, intelligenza e persino coscienza. Proprio come il prodotto della frenetica attività di un alveare (ossia di una «città delle api») non è solo il miele, il propoli, la cera e così via, ma anche «intelligenza» e conoscenza del territorio e persino qualcosa che ha a che fare con la stessa nostra sopravvivenza, perché nella loro ricerca del nettare questi insetti, impollinando piante e fiori, rendendo possibile la sopravvivenza e riproduzione del mondo vegetale, primo gradino della scala alimentare, (e quindi informandoci sullo stato dell' ambiente che condividiamo con loro), al punto che persino il grande Einstein avrebbe affermato che una eventuale scomparsa delle api porterebbe alla sparizione nel giro di pochi anni anche della specie umana: niente più piante, niente più animali che di esse si nutrono e quindi niente più uomini, che di piante e animali si nutrono.
Una sinistra profezia che, annunziano gli apicultori, in quest' epoca sembra mostrare qualche avvisaglia: negli Stati Uniti, in Asia, in Africa, in Europa, miliardi di api e migliaia di alveari stanno sparendo, si ignora ancora per colpa di chi: se per l' eccesso di antiparassitari nei campi, sconvolgimenti climatici, un virus o - secondo qualcuno - addirittura le radiazioni elettromagnetiche degli onnipresenti cellulari. Sta di fatto che con le api - minacciate da ciò che sembrerebbe un genocidio o un suicidio di massa - sparirebbe non solo un fattore prezioso della nicchia ecologica che ha consentito a Homo Sapiens di crescere e svilupparsi in tutto il pianeta, ma anche una «forma di intelligenza» seconda solo alla nostra. è la provocatoria e apparente paradossale tesi avanzata da uno dei più geniali etologi italiani, Giorgio Celli, in uno smilzo volumetto di gradevole lettura anche per il non addetto ai lavori, La mente delle api (Editrice Compositori, pagg. 99, euro 14). Seconde solo agli umani, le api infatti (ognuna delle quali equivale a una cellula di una sorta di superorganismo, l' alveare) possiedono un linguaggio, che si articola in una varietà di dialetti territoriali. E grazie a questa «lingua» - confortati dagli esperimenti etologici, tra cui quelli dello stesso Celli - questi indaffaratissimi insetti sono in grado non solo di assolvere alle funzioni loro assegnate dal comando dei geni, ma anche modificare la loro attività, trasmettersi nuove informazioni, comunicare e modulare notizie utili: una forma di comunicazione - scrive Celli - «che può venire elevata al rango di un linguaggio vero e proprio». Al punto - aggiunge - che «l' ape può costituire un buon modello per studiare la comparsa della cognizione». Perché le singole api - uscite per le prime volte alla ricerca del nettare - «imparano» dalle colleghe più esperte, modificando il comportamento e le direzioni di volo sulla base di informazioni non trasmesse «a voce» o con l' uso di manuali (che potrebbero essere costituiti da istinto e comandi genetici), ma con l' esempio e studiando i comportamenti delle loro colleghe più esperte e imparando quindi dalla «danza» sopra e dentro l' arnia delle bottinatrici rientrate dalla ricerca del nettare, direzione, distanza e collocazione dall' obiettivo e forse anche ricchezza, consistenza e colore della miniera floreale da sfruttare. Non si tratta, in realtà, d' un linguaggio verbale, come il nostro, ma «segnico», nel senso che le danze e gli «sculettamenti» delle bottinatrici rientrate dalle loro esplorazioni articolano un discorso ricco di nuove informazioni che le altre riescono a capire e tradurre in nuovi comportamenti. Un linguaggio di tale ricchezza e complessità da consentire persino una sorta di parlamento, quando un nuovo sciame sta ricercando quale luogo scegliere per erigere il nuovo alveare. Insomma una lingua danzata, come forse avveniva anche per i primi Homo Sapiens, e che è in grado di trasmettere messaggi astratti, facendo ricorso a «parole» simboliche, che ogni ape, dopo il lungo apprendistato nell' arnia, è in grado di comprendere.
Non stupisce perciò che «la grande moria delle api» stia suscitando in tutto il mondo allarme, preoccupazione e innescando nuove ricerche sulle quali ci informa anche un volume pubblicato da Mondadori (Silvie Coyaud, La scomparsa delle api), un allarme che riguarda non solo gli apicultori rovinati dalla misteriosa sparizione delle loro gialle operaie (forse del miele si può anche fare a meno) ma tutti noi in qualità di abitanti di questo pianeta, e tanto più se a sparire - come ci spiega Giorgio Celli - è una forma di intelligenza certamente molto diversa dalla nostra, ma ricca, complessa e sotto certi aspetti ancora misteriosa. -
FRANCO PRATTICO
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2008/08/09/le-api-pensano-parlano-come-noi.html
Repubblica — 09 agosto 2008 pagina 50 sezione: CULTURA