E' possibile un'apicoltura produttiva in montagna?


Sugli ultimi numeri dell’American Bee Journal si è svolta una interessantissima discussione su come fare apicoltura nelle regioni fredde e, in particolare, nelle zone montane. Da una parte Carl J. Wening sostiene, conti alla mano, che non è assolutamente conveniente invernare le api. E’ preferibile di gran lunga spopolare l’alveare immediatamente dopo l’ultimo raccolto estivo, conservare i favi ricchi di miele, ripopolare l’alveare con pacchi d’api all’inizio della buona stagione in tempo utile a che l’alveare sia pronto all’inizio del grande raccolto. Il vantaggio è che il costo del pacco d’ape è di gran lunga inferiore al costo del lavoro per condurre l’alveare fino alla primavera, al quale va aggiunto il consumo delle api, la percentuale di perdite, il risparmio delle scorte disponibili in primavera, le malattie evitate, la regina nuova, ecc. Una tecnica che dal punto di vista della logica non fa una piega e ci risulta praticata anche in Italia.

A distanza, non citandolo direttamente, Steve Taber risponde con una bellissima carrellata di tecniche di conduzione degli alveari dove l’apicoltura è al limite per le condizioni ambientali sfavorevoli a causa del freddo e del breve periodo di raccolto, dalla Svezia al Canada. La tesi implicita di Taber è la seguente: è possibile fare apicoltura produttiva anche dove il clima invernale è molto freddo e lungo e la stagione del raccolto molto breve, a condizione che si conosca bene la biologia, il comportamento dell’ape durante l’inverno e le tecniche che l’uomo ha sviluppato per fare un’apicoltura produttiva in questi ambienti.

Entrambi gli autori hanno il pregio di una chiarezza espositiva assolutamente sconosciuta a noi Italiani, nonché una conoscenza degli argomenti tale per cui, comunque si parteggi, dalla considerazione delle loro argomentazioni si esce comunque arricchiti. Io consiglio vivamente la lettura di questi contributi, soprattutto per il loro interesse immediato nella situazione italiana: è possibile fare un’apicoltura stanziale produttiva in montagna, dove gli inverni sono lunghi, freddi e con quasi totale assenza di importazione da settembre (quando non agosto) ad aprile?

Sto pensando soprattutto agli Appennini del centro-nord, ad un’altezza che può andare dai 700 ai 1000 metri, oppure alle Prealpi, che conosco meno, e dove non sia possibile fare raccolto di acacia, il quale di per sé è già ampiamente redditizio. Normalmente si ritiene che non sia possibile fare in queste zone un’apicoltura che non sia hobby, a causa del breve periodo di raccolto e del lungo inverno; per gli autori dei contributi dai quali siamo partiti invece non è in discussione se ma solamente il come. Quali sono le condizioni che lo renderebbero possibile anche nella situazione italiana?

Se noi ipotizziamo che il raccolto medio di un alveare ben condotto attraverso le varie fioriture in montagna potrebbe essere attorno a 18/20 kg, e se consideriamo il prezzo del miele venduto all’ingrosso, non solo non conviene assolutamente, ma ci si rimette anche un bel po’ di soldi. Infatti, oltre al maggior lavoro per invernare e sviluppare in primavera, è necessario intervenire pesantemente con la nutrizione. La ripresa primaverile senza nutrizione è tale per cui quando le api sono pronte ad andare a melario, il grande raccolto è già quasi terminato. Inoltre in annate siccitose, come le ultime due, senza nutrizione autunnale si rischia di perdere tutte le famiglie, e con primavere difficili si rischia di non fare raccolto. Per ultimo, ma forse primo per importanza, la selezione fatta dall’uomo negli ultimi 100/150 anni ha favorito di gran lunga un’ape da pianura e da nomadismo, distruggendo quasi tutti gli ecotipi locali, e comunque il clima di questi ambienti è sconosciuto alla maggior parte delle regine che si trovano in commercio.

La conclusione allora potrebbe essere esattamente come quella del Sig. Carl J. Wenning. Se proprio si vuole fare apicoltura in montagna e farlo per produrre anche un reddito ragionevole per mantenere decorosamente una famiglia, non c’è altra strada: spopolare in agosto, ripopolare ai primi di marzo. Inoltre il vantaggio aggiuntivo per l’eliminazione del problema varroa e peste americana, permette di fare il biologico con difficoltà ridotte a zero.

Lo svantaggio principale e fondamentale di questa tecnica è che così si rinuncia definitivamente ad un animale che sia capace di vivere anche in queste condizioni, e si impoverisce irrimediabilmente l’Apis mellifera ligustica di una delle sue caratteristiche fondamentali: la sua estrema adattabilità. Questa caratteristica, che l’ha resa la principale ape da reddito nel mondo, è il risultato di un processo più che plurimillenario nel quale l’ape italiana si è selezionata da sola in condizioni molto più simili alla montagna attuale che alla pianura. Un’apicoltura che rinuncia alla montagna favorisce il perdersi di un patrimonio che non sarà mai più recuperabile; e anche queste sono considerazioni che hanno la loro importanza e non piccola; anzi, forse il nocciolo del problema è tutto qui, se si guardano le cose appena un pochino oltre l’interesse immediato del singolo.

La prospettiva cambia se si produce miele non per la vendita all’ingrosso ma per il dettaglio, in particolare presso l’abitazione oppure per negozi specializzati in prodotti alimentari di qualità. Come dovrebbe essere naturale, perché il miele prodotto a queste altezze o in questi climi quasi sempre non ha concorrenti per qualità, e il problema della commercializzazione è più come trovare canali giusti per quantità considerevoli che incontrare il favore dei consumatori. Quando il consumatore arriva ad assaggiare questo prodotto, se è un buongustaio, quasi sempre poi rimane legato al suo consumo.

Proviamo a fare un veloce calcolo economico. Diciamo che il miele così prodotto e così venduto riesce a spuntare, anche con i commercianti al dettaglio, un prezzo che si aggira attorno alle 10.000 lire al Kg; per cui un alveare che produce 18 kg di miele permette un’entrata lorda di 180.000 lire. Tolte tutte le spese tipo vasetto, etichetta, nutrizione, costi aziendali, trasporti, ammortamento, ecc., un alveare può rendere attorno alle 100.000 lire pulite. Cento alveari 10 milioni, 500 alveari 50 milioni, più tutti i prodotti aggiuntivi quali cera, propoli, nuove famiglie, ecc. Con 800 alveari stanziali, cosa assolutamente non impossibile per un’azienda familiare, diciamo che sarebbe garantito anche un discreto benessere. Certo, condurre un così alto numero di alveari e fare anche del biologico è tutt’altra storia, ma le storie si costruiscono passo dopo passo un passo alla volta.

Di per sé i conti tornerebbero, se non fosse per il fatto che vendere quantità simili di miele al dettaglio è un’impresa non piccola, diciamo impossibile; e il commercio all’ingrosso non riconosce assolutamente la qualità.

Ma anche arrivare ad una produzione di 18/20 Kg di media per alveare in montagna non è uno scherzo. Sono necessarie tecniche di conduzione degli alveari niente affatto scontate, come ad es. quale tipo di regina, modalità di invernamento, strategie della nutrizione e dello sviluppo primaverile, ecc.; e soprattutto una conoscenza della biologia dell’ape e dell’alveare molto difficile da raggiungere. Non solo, ma i 18/20 kg dovrebbero essere solo una tappa e non il risultato finale, e senza tirare il collo all’animale, anzi favorendone al massimo il suo sviluppo naturale ed armonico. La questione si potrebbe sintetizzare così: come mantenere nell’alveare dai primi di maggio ai primi di agosto una popolazione di bottinatrici costantemente così numerosa che in qualsiasi momento arrivi il raccolto la maggior parte delle famiglie siano pronte a raccogliere almeno 2 melari in quindici giorni? E’ un bel rompicapo, però tutti sappiamo che le api non vogliono campicchiare ma vivere alla grande, e più corrono e meglio stanno.

Si può arrivare a queste produzioni invernando?, oppure si deve ricorrere anche noi alla tecnica dello spopolamento e del ripopolamento iniziale e costante durante la stagione produttiva? Io non ho risposte certe, mi piaceva solo riflettere a voce alta per attivare, se possibile, quella comunicazione fatta di andata e ritorno nella quale uno mette del suo per quello che ha e prende per quello che gli serve.

Ad es. un apicoltore finlandese, Pekka Tuomanen, che ho conosciuto in una più che interessantissima situazione per allevatori organizzata dall’Associazione Romagnola Apicoltori, mi raccontava che in due mesi riescono a far produrre una media di 80/100 kg ad alveare, e loro invernano e utilizzano soprattutto l’ape italiana. Il che conferma l’estrema adattabilità dell’ape italiana agli ambienti freddi; e vorrei ripeterlo perché lo considero il nocciolo della maggior parte dei problemi: le condizioni ambientali nelle quali si è selezionata la nostra ape è l’ultima grande glaciazione, in condizioni climatiche molto simili a quelle alle quali ci siamo riferiti; e quindi, di per sé l’ape italiana non solo non è un animale da pianura (perché le pianure allora non esistevano) ma il suo habitat climatico naturale dovrebbe essere proprio l’ambiente collinare e montano. E se la selezione dell’uomo fino ad oggi è andata in direzione opposta, sicuramente nella sua memoria genetica l’Apis mellifera ligustica ha conservato le caratteristiche utili ad una selezione che favorisca l’adattabilità anche in montagna.

Per questo la soluzione da me preferita in montagna è invernare, benché non sia disposto a ritenerla in assoluto la soluzione economicamente migliore e valuto tutt’ora i pro e i contro. E’ più produttivo? Non lo so, e comunque è una bella sfida che riguarda soprattutto 3 problemi: 1) selezione delle regine; 2) conoscenza del comportamento delle api; 3) tecniche di conduzione degli alveari. Poi il mercato.

Gabriele Milli
millig@libero.it