Italo Calvino 


da Marcovaldo

da La cura delle vespe

L'inverno se ne andò e si lasciò dietro i dolori reumatici. Un leggero sole meridiano veniva a rallegrare le giornate, e Marcovaldo passava qualche ora a guardar spuntare le foglie, seduto su una panchina,aspettando di tornare a lavorare.Vicino a lui veniva a sedersi un vecchietto, ingobbito nel suo cappotto tutto rammendi: era un certo signor Rizieri, pensionato e solo al mondo, anch'egli assiduo della panchine soleggiate.Ogni tanto questo signor Rizieri dava un guizzo, gridava-Ahi!- e s'ingobbiva ancora di più nel suo cappotto. Era carico di reumatismi, di artriti, di lombaggini, che raccoglieva nell'inverno umido e freddo e che continuavano a seguirlo tutto l'anno. Per consolarlo, Marcovaldo gli spiegava le varie fasi dei reumatismi suoi, e di quelli di sua moglie e di sua figlia  maggiore Isolina, che, poveretta, non cresceva tanto sana.
  Marcovaldo si portava ogni giorno il pranzo in un pacchetto di carta da giornale;seduto sulla panchina lo svolgeva e dava il pezzo di giornale spiegazzato al signor Rizieri che tendeva la mano impaziente, dicendo:-Vediamo che notizie ci sono,- e lo leggeva con interesse sempre uguale, anche se era di due anni prima.
Così un giorno ci trovò un articolo sul sistema di guarire dai reumatismi col veleno d'api.
-Sarà col miele,- disse Marcovaldo, sempre propenso all'ottimismo.
-No,- fece Rizieri,- col veleno, dice qui, con quello del pungiglione,- e gli lesse alcuni brani. Discussero a lungo sulle api, sulle loro virtù e su quanto poteva costare quella cura.
Da allora, camminando per i corsi, Marcovaldo tendeva l'orecchio a ogni ronzio, seguiva con lo sguardo ogni insetto che gli volava attorno. Così, osservando i giri di una vespa dal grosso addome a strisce nere e gialle, vide che si cacciava nel cavo d'un albero e che altre vespe uscivano: un brusio, un va e vieni che annunciavano la presenza di un intero vespaio dentro il tronco. Marcovaldo s'era messo subito alla caccia.[....]
[....]La voce si sparse; Marcovaldo ora lavorava in serie: teneva sempre una mezza dozzina di vespe di riserva, ciascuna nel suo barattolo di vetro, disposte su una mensola. Applicava il barattolo sulle terga dei pazienti come fosse una siringa, tirava via il coperchio di carta, e quando la vespa aveva punto, sfregava col cotone imbevuto d'alcool, con la mano disinvolta di un medico provetto. Casa sua consisteva d'una sola stanza, in ,cui dormiva tutta la famiglia; la divisero con un paravento improvvisato, di qua sala d'aspetto, di là studio. Nella sala d'aspetto la moglie di Marcovaldo introduceva i clienti e ritirava gli onorari. I bambini prendevano i barattoli vuoti e correvano dalle parti del vespaio a far rifornimento. Qualche volta una vespa li pungeva, ma non piangevano quasi più perché sapevano che faceva bene alla salute.[....]
[....]Marcovaldo stava dicendo ai suoi pazienti:-Abbiate pazienza, adesso arrivano le vespe,-quando la porta s'aperse e lo sciame invase la stanza. Nemmeno videro Michelino che andava a cacciare il capo in un catino d'acqua: tutta la stanza fu piena di vespe e i pazienti si sbracciavano nell'inutile tentativo di scacciarle, e i reumatizzati facevano prodigi d'agilità e gli arti rattrappiti si scioglievano in movimenti furiosi.
  Vennero i pompieri e poi la Croce Rossa. Sdraiato  sulla sua branda all'ospedale, gonfio irriconoscibile dalle punture, Marcovaldo non osava reagire alle imprecazioni che dalle altre brande della corsia gli lanciavano i suoi clienti.