Vincenzo Monti

        

LeApi Panacridi, quelle stesse api che un giorno nutrirono Giove bambinosul monte Ida, adesso donano il loro miele, simbolo di operosità,eloquenza e  poesia, al fanciullo figlio di Napoleone. Sono le Apistesse a rivolgersi al neonato in prima persona nell’ode-canzonetta, compostanel 1811 quando la puerpera Maria Luisa d’Austria, moglie di Napoleone,era ospite del patrizio veneziano Alvise Mocenigo nel borgo agro-industrialedi Alvisopoli, fondato pochi anni prima dallo stesso Mocenigo sulle rivedel fiume Lèmene (affluente del Tagliamento). 

Le Api Panacridi in Alvisopoli


Quest’aureo miele etereo, 
    su’l timo e le viole 
    dell’aprica Alvisopoli 
    còlto al levar del sole, 
noi caste Api Panacridi                        5
    rechiamo al porporino
    tuo labbro, augusto pargolo, 
    erede di Qurino;
noi del tonante Egioco
    famose un dí nutrici,                        10 
    quando vagìa fra i cembali
    su le dittèe pendici.
Mercé di questo ei vivere
    vita immortal ne diede, 
    e ovunque i fior più ridono               15
    portar la cerea sede.
Volammo in Pilo; e a Nestore
    fluîr di miele i rivi,
    ond’ei parlando l’anime
    molcea de’ regi achivi.                     20
Ne vide Ilisso; e il nèttare
    quivi per noi stillato
    fuse de’ Numi il liquido
    sermon sul labbro a Plato.
N’ebbe l’Ismeno; e Pindaro                 25
    suonar di Dirce i versi
    fe’ per la polve olimpica
    del nostro dolce aspersi.
E nostro è pur l’ambrosio
    odor che spira il canto                     30
    del caro all’Api e a Cesare
    cigno gentil di Manto.
Invïolate e libere
    di lido errando in lido, 
    del bel Lemène al margine             35
    alfin ponemmo il nido.
E di novello popolo
    al buon desío pietose, 
    de’ più bei fiori il calice
    suggendo industrïose,                    40
quest’aureo miele etereo
    cogliemmo al porporino 
    tuo labbro, augusto pargolo, 
    erede di Quirino.
Celeste è il cibo; e, simbolo               45
    d’alto regalconsiglio, 
    con piú felice auspizio
    l’ape successe al giglio;
ché noi parlante immagine
    siam di re prode e degno,              50
    e mente abbiamo ed indole
    guerriera e nata al regno.
Il favo, che sul vergine
    tuo labbricciuol si spande, 
    in te sia dunque augurio                55
    di sir prestante e grande.
E lo sarai; ché vivida
    le fibre tue commove
    l’aura di tal magnanimo
    che su la terra è Giove.                 60
Ma d’uguagliar del patrio
    valor le prove e il volo
    poni la speme: il massimo
    che ti diè vita è solo.
L’imita; e basti. Oh fulgida                 65
    stella! Oh sospir di cento
    avventurosi popoli!
    Del padre alto incremento!
Cresci, e t’ avvezza impavido
    con lui dell’orbe al pondo:             70
    ei l’Atlante, tu l’Ercole; 
    ei primo, e tu secondo.
D’un guardo allor sorridere
    degna al terren, che questo
    ti manda iblèo munuscolo,            75
    offeritor modesto.
Su quelle sponde industria
    una città già crea
    cara a Minerva; e sentono
    già scossi i cuor la dea.                80
Natura ivi spontanea
    i suoi tesor comparte
    ed operosa e dedala
    più che natura è l’arte.
Le prezïose e candide                      85
    lane d’ibera agnella
    pianta rival dell’indaco
    d’un vivo azzurro abbella.
La forosetta i morbidi
    velli all’egizia noce                        90
    tragge; e ne storna l’opera
    amor, che rio la cuoce;
amor del caro giovine, 
    che del paterno campo
    i solchi lascia e intrepido               95
    vola dell’armi al lampo, 
e seguirà la folgore
    che adulto fra le squadre
    tu vibrerai, se a vincere
    nulla ti lascia il padre.                   100
Ma di Gradivo agl’impeti
    l’alme virtú sien freno, 
    che all’adorata informano
    tua genitrice il seno.
Germe divin, comincia                      105
    a ravvisarla al riso, 
    ai baci, ai vezzi, al giubilo
    che le balena in viso.
La collocâr benefici
    sul maggior trono i numi.              110
    Ridi alla madre, o tenero;
    apri, o leggiadro, i lumi.
Ve’ che festanti esultano
    alla tua culla intorno
    le cose tutte, e limpido                  115
    il sol n’addoppia il giorno.
Suonar d’allegri cantici
    odi la valle e il monte, 
    sussurar freschi i zefiri, 
    dolce garrir la fonte.                      120
Stille d’eletto balsamo
    sudan le quercie annose:
    ogni sentier s’imporpora
    di mammolette e rose.
Tale il sacro incunabolo                    125
    fioría di Giove in Ida: 
    ed ei, crescendo al sonito
    di rauchi bronzi e grida, 
rompea le fasce; e all’etere
    spinto il viril pensiero,                    130 
    già meditava il fulmine, 
    signor del mondo intero.